L’HIV non è scomparso. In Italia ci sono 140mila persone con questa patologia. E nel 2023 ci sono state oltre 2.300 nuove diagnosi, di cui il 60% avvenute quando il sistema immunitario è già compromesso. Per gli esperti, la lotta al virus è stata messa in stand by e se ne parla poco. Procede troppo lenta e non sta dando i risultati sperati, quelli che dovrebbero garantire la fine dell’epidemia entro il 2030, come stabilito dalle Nazioni Unite. Nonostante i progressi della ricerca scientifica e delle terapie antiretrovirali, le cause sono la mancanza di informazione e la scarsa diffusione della PrEP (ovvero la pre-esposizione che consiste nel prendere farmaci anti-HIV da parte di persone HIV-negative, che hanno un rischio di contrarre l’HIV, riducendo sensibilmente il rischio di diventare sieropositivi). Ma non solo. Lo stigma persistente e il silenzio che ancora avvolge l’HIV impediscono la diminuzione del numero di nuove infezioni.

Eppure, ci sono strategie per rendere nuovamente centrale il tema dell’infezione da HIV nell’agenda politica e sanitaria italiana e rilanciare l’azione pubblica per contrastarne la diffusione. Se ne è parlato una decina di giorni fa a Roma nel corso di ‘HIV SUMMIT: Ending the HIV Epidemic in Italy’.

Particolare attenzione deve essere posta al tema della prevenzione, strumento “chiave” per cambiare rotta e raggiungere l’obiettivo di diminuire drasticamente il numero di nuove infezioni. Gli esperti si sono concentrati sul concetto di U=U (undetectable=untransmittable, cioè non rilevabile, non trasmissibile). L’innovazione terapeutica, infatti, da una parte consente di pensare a una protezione pre-esposizione efficace e flessibile, dall’altra a terapie in grado di abbassare così tanto la carica virale da impedire la trasmissione del virus da parte della persona con HIV.

“Nonostante questi innegabili successi, restano ancora criticità che è necessario affrontare a livello globale”, dice il professor Stefano Vella, Infettivologo e docente di salute globale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, che aggiunge: “Va garantito un maggior accesso alle terapie sia per prevenire l’infezione sia per curare chi l’ha contratta. La storia dell’HIV ci insegna che ogni traguardo è stato raggiunto grazie alla collaborazione tra ricerca scientifica, attivismo e volontà politica. È questo il modello che dobbiamo rilanciare oggi, per superare le disuguaglianze nell’accesso ai trattamenti, rafforzare l’aderenza terapeutica e rimettere al centro la prevenzione. Solo così potremo davvero parlare di fine dell’epidemia”.

Le opzioni attuali di prevenzione, in particolare la profilassi pre-esposizione (PrEP), non sempre rispondono pienamente alle esigenze di coloro che desiderano o necessitano di protezione contro l’HIV. Per molti, le soluzioni esistenti non sono sufficienti e c’è una crescente richiesta di modalità di prevenzione più accessibili, efficaci e pratiche.

Tra le indicazioni di prevenzione strutturate, rimarca Andrea Antinori, direttore del Dipartimento Clinico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani IRCCS di Roma, è importante l’accessibilità a strumenti come il test per l’HIV, il profilattico e soprattutto, appunto, la PrEP. Commenta: “Serve un investimento deciso su informazione, cultura della percezione del rischio e servizi territoriali, come i checkpoint, che devono essere rafforzati anche grazie a risorse pubbliche. Solo con una risposta condivisa e intersettoriale potremo far emergere il sommerso, interrompere le nuove infezioni e costruire una rete di prevenzione davvero efficace”.

L’obiettivo comune è la costruzione di una roadmap concreta per il raggiungimento dei target UNAIDS 95-95-95, fondamentali per porre fine all’epidemia da HIV entro il 2030.

 

Shares
Abilita le notifiche OK No grazie