In Italia oggi sono 800mila i pazienti in cura a seguito di un evento aterosclerotico-cardiovascolare e sottoposti quindi a ‘rischio residuo’, ovvero alla probabilità di sviluppare un evento cardiovascolare maggiore anche se in cura con le terapie standard raccomandate.

Un nuovo approccio terapeutico per abbattere il 5% dei ricoveri nella cura del rischio cardiovascolare residuo potrebbe assicurare al Servizio Sanitario Nazionale un risparmio di 170 milioni di euro (considerando una remunerazione teorica delle prestazioni di ricovero ospedaliero pari a 3 miliardi di euro). È quanto è emerso da uno studio realizzato da Altems (Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore) e presentato il 6 giugno a Roma nel corso dell’evento ‘Prevenzione cardiovascolare secondaria. Un nuovo paradigma di trattamento del rischio cardiovascolare residuo’, patrocinato dalle società scientifiche Sic, Anmco, Gise e dall’Intergruppo Parlamentare sulle malattie cardio, cerebro e vascolari.

Da ricordare che le malattie cardiovascolari in Italia sono ancora la principale causa di morte, essendo responsabili del 44% dei decessi: in particolare, la cardiopatia ischemica è tra i ‘big killer’ nel 28% dei casi, mentre gli accidenti cerebrovascolari (13%) sono al terzo posto dopo i tumori. A livello globale, nel 2019, è stata stimata una prevalenza per le malattie cardiovascolari di 523 milioni di casi, tra malattie cardiache, cerebrovascolari e interventi di bypass aortocoronarico o angioplastica, con un costo di 210 miliardi l’anno solo nell’Unione europea.

“Le malattie cardiovascolari sono in assoluto la prima sfida sanitaria per il paese perché rappresentano la causa di morte e di ricovero ospedaliero più diffusa in Italia, come in tanti altri paesi”,  ha commentato Pasquale Perrone Filardi, presidente Sic (Società Italiana di Cardiologia). “Spetta a noi e spetta alla politica mettere a terra tutte le possibilità che oggi la scienza ci mette a disposizione. Oggi questa è una sfida assolutamente importante, che va intensificata anche alla luce delle tante differenze che purtroppo oggi esistono, a livello nazionale e persino all’interno delle singole regioni, nell’accesso alle cure e in generale alla prevenzione cardiovascolare’.

Nel nostro Paese i disturbi dell’apparato cardiocircolatorio rappresentano, inoltre, la maggiore causa di ricovero: nel 2019 si sono registrate per queste patologie 863.505 dimissioni (14,3% del totale), con 6.222.673 giornate di degenza (7,2 giorni di degenza media). Le malattie cardiovascolari rappresentano, quindi, una delle voci più impattanti sulla spesa farmaceutica in Italia. Dal Rapporto Osmed 2021 risulta che la spesa complessiva pro capite per i farmaci dell’apparato cardiovascolare è pari a 54,92 euro, in aumento del 2,2% rispetto all’anno precedente.

Tutto questo va poi iscritto in un quadro di cronicità: chi sopravvive a un attacco cardiaco diventa infatti un malato cronico, con complicazioni che causano notevoli ripercussioni sulla qualità della vita e sui costi economici e sociali che la società deve affrontare. In Italia il 40% della popolazione, circa 24 milioni, è affetto da almeno una patologia cronica e, negli over 65, circa il 50% soffre di almeno 3 o più condizioni croniche. Ad oggi, si registrano 66,7 miliardi di spesa per la cronicità, con una previsione di aumento a 70,7 miliardi nel 2028.

A influenzare il rischio cardiovascolare residuo, oltre a elementi non modificabili come età, sesso e predisposizione genetica, ci sono fattori noti e modificabili come colesterolo, pressione arteriosa e diabete mellito, fumo, adiposità addominale e i trigliceridi, microparticelle lipidiche che circolano nel sangue e che contribuiscono a indurre una risposta infiammatoria nelle pareti delle arterie e favoriscono, unitamente al colesterolo, la formazione delle placche aterosclerotiche. La dislipidemia (l’insieme delle alterazioni di questi elementi) è responsabile di circa il 55% del rischio di sviluppare un infarto miocardico. La terapia con statine rappresenta pertanto il caposaldo di tale trattamento, tanto è vero che le linee guida nazionali, incluse quelle specifiche per il diabete, raccomandano in prima istanza la riduzione del colesterolo LDL per ridurre tale rischio. Questo approccio ha dato risultati importantissimi, che a fronte di riduzioni del LDL fino al 50% dei suoi valori, ha associato una riduzione degli eventi cardiovascolari del 40-45%.

Giovanni Esposito, presidente della Società Italiana di Cardiologia Interventistica Gise e membro della cabina di regia nazionale del Piano nazionale cronicità presso Ministero della salute ha sottolineato che “oggi esistono numerose opportunità, non soltanto di tipo interventistico ma soprattutto farmacologico. È possibile raggiungere i target ambiziosi delle linee guida portando il colesterolo su livelli sempre più bassi”. E ancora: “Bisogna fare in modo che vengano utilizzate tutte le armi a nostra disposizione per fare in modo che la mortalità cardiovascolare continui a ridursi nel tempo”. Ancora più nello specifico l’intervento di Leonardo De Luca, vicepresidente Anmco (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri): “Abbiamo una grande ricchezza di presidi e di strategie grazie alla ricerca degli ultimi decenni. Abbiamo terapie farmacologiche che riducono il rischio trombotico, con terapie anti-aggreganti e terapie anticoagulanti a lungo dosaggio, cosiddetto vascolare, con degli studi dedicati che hanno dimostrato un beneficio anche in termini di mortalità in pazienti ad alto rischio che prolungano la terapia anti-aggregante doppia, quindi aspirina più inibitore del P2Y12, oppure con questa strategia innovativa di aspirina più anticoagulante a dosaggio vascolare. Abbiamo delle strategie di terapie ipolipemizzanti, che sono molteplici ed estremamente efficaci. Non solo le statine, ma anche farmaci cosiddetti non statinici, anticorpi monoclonali, i cosiddetti ‘sirn’, i silenziatori dell’RNA, e ad oggi anche nuovi farmaci simili alle statine ma che non producono gli effetti collaterali delle mialgie, dei dolori muscolari. Abbiamo poi nuove terapie che riducono i trigliceridi, quindi farmaci che riducono il cosiddetto rischio residuo al di là dell’ottimizzazione della terapia. E poi ci sono sempre gli stili di vita, l’abolizione dell’abitudine tabagica, l’esercizio fisico, l’alimentazione corretta, che riduce notevolmente il rischio dei pazienti in prevenzione secondaria. Quindi terapie farmacologiche più o meno innovative, nuove strategie e terapie non farmacologiche”. Insomma, c’è da ben sperare (e risparmiare).

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