La Fondazione Italiana per la Ricerca in Reumatologia (FIRA), in base a diverse ricerche svolte nell’ultimo anno in Italia e a livello internazionale, sottolinea come l’inquinamento atmosferico possa innescare meccanismi infiammatori autoimmuni e causare danni al sistema scheletrico peggiorando il decorso delle malattie reumatologiche.
È noto da tempo che l’inquinamento, in particolare quello atmosferico, è associato a un maggior rischio di patologie cardiovascolari e polmonari. Alcuni studi hanno suggerito che l’inquinamento atmosferico possa aumentare anche il rischio di ammalarsi di artrite reumatoide, provocando la produzione di auto-antigeni e quindi di auto-anticorpi che innescano la risposta infiammatoria a danno, anche, delle articolazioni.
Un recente studio, coordinato da Giovanni Adami della UOC di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata (AOUI) di Verona, è stato dedicato a indagare la possibile relazione tra l’incidenza e la severità di diverse malattie reumatologiche, sia autoimmuni che degenerative, con l’esposizione all’inquinamento atmosferico. Il che incide negativamente sulle terapie e sull’andamento delle patologie.
Ma ci sono altri “collaboratori” che concorrono a peggiorare le malattie reumatologiche.
Un ampio studio europeo mette in correlazione per la prima volta la capacità di gestione dell’artrite con il reddito e la situazione socioeconomica del paziente, che sono direttamente proporzionali.
La nuova frontiera nel trattamento dell’artrite è non accontentarsi della remissione dell’infiammazione ma curare anche quella sensazione di malessere che persiste in alcuni pazienti con un nuovo approccio.
È vero, sostengono gli esperti, che i risultati ottenuti nella cura dell’artrite reumatoide negli ultimi due decenni sono stati sensazionali. Attraverso l’istituzione anche in Italia di apposite strutture organizzative denominate ‘Early Arthritis Clinic’, che consentono una diagnosi precoce e un trattamento volto al rapido e completo controllo della malattia, è oggi possibile ridurre al minimo l’invalidità, un tempo inevitabile, e azzerare l’eccesso di mortalità che storicamente accompagnava questi pazienti.
Tuttavia, va indagata quella quota non trascurabile di pazienti, calcolabile intorno al 15%, che si dimostra ancora refrattaria ai trattamenti e pone problemi rilevanti nella gestione della malattia. “L’attenzione della ricerca si sta quindi incentrando su questa popolazione cercando di chiarire i motivi di queste difficoltà”, spiega Carlomaurizio Montecucco, Presidente di FIRA e ordinario di Reumatologia dell’Università di Pavia al Policlinico San Matteo. “Tra i fattori più importanti nell’identificazione della popolazione ‘difficile da trattare’ vi sono l’obesità e il fumo, fattori di rischio per lo sviluppo dell’artrite, e il basso livello socioeconomico”.